Various Artists – Swamp Blues
A sudovest di Baton Rouge la french-music, vale a dire la musica tradizionale autoctona della regione acadiana (Cajun Country), a metà Novecento non era più isolata come fino a qualche decennio prima, e si scoprì influenzata dalla circostante cultura musicale popolare, dalla country music al rhythm and blues.
Il contagio fu reciproco, mentre la scena blues urbana della capitale della Louisiana era relativamente lontana e più ancorata alla tradizione mississippiana per mostrarlo con una sua evidenza negli stessi momenti, rimanendo nascosta per la mancanza in loco di un polo attrattivo (cioè discografico) che la potesse sublimare.
Fu nella piccola Crowley che lo swamp blues si sviluppò e si definì nella sua espressione caratteristica, e precisamente nello studio di J.D. Miller. Un luogo o, è il caso di dire, un genius loci che in quegli anni si impregnò e contaminò di blues, cajun, zydeco, country, rock ‘n’ roll, per il passaggio di tanti artisti locali, molti provenienti da cittadine del sud della Louisiana e del sud-est del Texas, dal Bayou Country, come Church Point, Breaux Bridge, Rayne, Ville Platte, Lake Charles, Port Arthur, Eunice, Opelousas, Morgan City, attratti dalla possibilità di registrare o in passaggio obbligato su quella musicalmente fertile direttiva Louisiana-Texas (ad es. da Lafayette a Beaumont e viceversa) rappresentata dalla I 10, percorsa da est e da ovest per le sue opportunità lavorative, e sulla quale Crowley casualmente si appunta.
In questo disco troviamo quei cinque nomi dell’area di Baton Rouge elencati in copertina in una fase matura, consapevoli che la parabola dello swamp blues, perlomeno quello identificato come “Excello sound” e quindi quello del successo commerciale, era compiuta. La fase del boom discografico era passata e non aveva interessato questi artisti. Alcuni di loro avevano lasciato tracce per Miller, come accompagnatori dei nomi più noti del blues delle paludi e come solisti, ma erano rimasti nell’ombra per aver cominciato tardi a registrare, penalizzati ulteriormente dalle uscite posticipate dei dischi, dalla rottura del contratto di Miller con Excello, in definitiva dal declino dello swamp blues.
Qui è facile rendersi conto di cosa abbiamo perso. Non è nemmeno difficile dire quanta contaminazione (richiesta o manipolata da parte dei produttori) e quanta purezza ci sia, filtrato com’è da mani esterne e influenzato in egual modo dai suoni dell’epoca in cui fu registrato (1970), dal blues di Chicago e, in sé, dalla consapevolezza, dal tempo trascorso; da qui un titolo un po’ ingannevole per i nostalgici di quell’idioma. Del resto lo swamp blues regionale fu un fenomeno tutto discografico, circoscritto a quell’ambiente, a quel “laboratorio”, a chi ne prese direttamente parte in varie gradazioni e ruoli. Al contempo, quando i solisti sono soli e ogni accessorio forzatamente “swamp” è lasciato a parte insieme a quei suoni aggiornati tanto cari a Mike Vernon, la verosimiglianza a sé stessi, o che dir si voglia al blues di Baton Rouge qualsiasi cosa significhi, è più concreta, almeno nell’aspetto più “classico”, senza epoca.
La fortuna di certi produttori inglesi, non sempre colta al meglio, di avvicinarsi ai sopravvissuti del blues prima di qualsiasi altro straniero, toccò soprattutto lui, Vernon, discografico britannico infiltrato nel mercato statunitense il quale, avendo la sua Blue Horizon, poteva andare oltre la produzione senza affidarsi a terze parti, e contando quasi sempre su una distribuzione internazionale.
La sua maggiore fonte informativa era la redazione di Blues Unlimited, fanzine inglese pioniera delle riviste blues, i cui fondatori da tempo seguivano il lavoro di Miller a Crowley, con Mike Leadbitter e John Broven sempre pronti a fargli ascoltare le ultime uscite Excello, e fu proprio Leadbitter a spingerlo a effettuare il suo primo viaggio nel profondo sud est americano.
Il mediatore locale, Terry Pattison di Baton Rouge, era un appassionato che fremeva per far registrare alcuni talenti del posto, e Blue Horizon aveva già un accordo con Nashboro, la casa madre del marchio Excello e proprietaria della maggior parte del catalogo di Miller. A quei tempi Blue Horizon aveva già pubblicato Lightnin’ Slim e Lonesome Sundown, e altri album di Slim Harpo, Silas Hogan e Arthur Gunter sarebbero seguiti, insieme al doppio The Excello Story.
Dopo aver fissato il luogo, i Deep South Recording Studios in Government Street, rintracciarono gli artisti, e uno dei primi che trovarono fu Silas Hogan, il nonno dei bluesman di Baton Rouge, qui il più vicino allo stile discografico dello swamp blues. La prima volta che Vernon lo vide stava accordando la sua vecchia Stratocaster sui gradini dello stabilimento di imballaggio frutta di fianco ai Deep South, accerchiato da un gruppetto di amici, tra i quali anche suo figlio, il batterista Samuel.
Un altro fu Moses ‘Whispering’ Smith, armonicista partner di Silas Hogan e di Lightnin’ Slim dal vivo e in studio presso Miller, nel 1963/1964 anche come solista, ma senza riscontro commerciale.
Arthur ‘Guitar’ Kelley, anche lui trascurato e da tempo partner di Hogan così come di Lightnin’ Slim, era solo alla sua seconda volta in uno studio di registrazione. Vernon lo descrive come un uomo minuto, segnato dal tempo. L’influenza di Otis Hicks (Lightnin’ Slim) giaceva più o meno sopita nel blues di Baton Rouge e dintorni, e tra questi solchi la presenza di questo grande assente si può ben rilevare dall’apporto di Kelley, ma in egual modo, come in Silas Hogan, spunta il verbo di Lightnin’ Hopkins, padre putativo dello stesso Hicks.
La voce di Moses Smith mi piace molto, ma anche quella di Clarence Edwards ha un bel carattere. Poco registrato fino a quel momento, Vernon lo definisce tipo di poche parole. Il quinto disponibile fu Henry Gray, l’unico di questi emigrato con successo al nord e noto per il suo lavoro a Chicago, in particolare con Howlin’ Wolf; accompagna tutti gli artisti tranne Kelley, e dà il suo contributo come solista.
Se la rosa dei protagonisti è soddisfacente, non sempre lo è la sezione ritmica, composta dalla batteria del giovane figlio di Hogan, Samuel, dal basso di Clarence Prophet e dalla chitarra di Roy Lee Sheppard. A complicare la sensazione a volte di inadeguatezza, il fatto che allora Mike Vernon abbia sentito la necessità di “ripassare” qualche traccia sostituendo in overdub alcune parti del bassista con quelle di altri musicisti. Nel libretto di questa riedizione in digitale, da lui scritto a posteriori, dice di non ricordare bene perché, ma suppone si sia trattato di una possibile “mancanza di coesione” tra il batterista e il bassista. Tuttavia conoscendo l’abitudine di Vernon a manipolare le registrazioni non si può star sicuri che fosse proprio necessario.
Lo stesso produttore poi evidenzia la stranezza che al tempo nessuna menzione fu fatta su musicisti di supporto quali Rudolph Richard (chitarrista di Slim Harpo), Katie Webster, Al Foreman, Rufus Thibodeaux o Austin Broussard, tra i più noti nelle sessioni swamp blues di Miller. È ciò che mi sono chiesta anche io, ma solo lui e Pattison potrebbero giustificarla. Vero è che ai tempi i nomi di supporto non erano molto conosciuti, ma per i due, data la loro prossimità di tempo e luogo, non sarebbe stato difficile fare qualche ricerca invece di limitarsi a coinvolgere gli stessi accompagnatori delle sessioni Arhoolie di qualche mese prima, in supporto agli stessi interpreti (Louisiana Blues, CD 9004; l’unico diverso è il bassista Gene Douzier, qui non presente), (1) se proprio volevano avvicinarsi di più, come sembra negli intenti, a quello stile là. Aggiungo che anche la presenza di batteristi come Clarence ‘Jockey’ Etienne o Warren Storm e del bassista Bobby McBride avrebbe avuto più di un senso, mentre Webster avrebbe potuto far più che accompagnare solamente. Sulla mancanza invece di Lightnin’ Slim e Lazy Lester (Slim Harpo era deceduto qualche mese prima, Lonesome Sundown s’era dato alla religione, anche se poi, qualche anno prima di morire, tornò parzialmente alla musica mondana), è Pattison che risponde:
Cercai molte volte di rintracciare Lester, ma o era fuori a pescare da qualche parte oppure in visita alla famiglia e agli amici a Saginaw, Michigan. È uno di quei tipi che puoi avere seduto davanti alla tua porta di casa e un minuto dopo, prima che tu possa dire qualcosa, è già sparito per mesi. Stessa cosa per Slim, stava girando in tour per il Mississippi o il Texas, e nessuno è stato in grado di dirmi quando o se sarebbe tornato. Credo che abbia interrotto i rapporti sia con la moglie che con la sua ragazza. Temo che dovremo darli per persi.
Registrarono in agosto con la sezione ritmica per due giorni, e il tempo restante lo usarono per le performance soliste, ricavandone ventiquattro brani: dodici con l’accompagnamento del gruppo (Excello LP 8015) e dodici in solitaria (Excello LP 8016), pubblicati anche sul mercato inglese su doppio LP Blue Horizon (S 7-63869).
Al suono Cy Frost, allora capo dello studio Deep South, mentre le sostituzioni su qualche traccia del basso di Prophet con quello di Leon Medica e/o di Gregg Schaefer (di quest’ultimo è stato inserito anche un solismo di chitarra) (2) s’attuarono a Nashville ai Woodland Studios di Nashboro prima del missaggio finale. Furono inoltre aggiunti vari strumenti percussivi, come cowbell, woodblock e washboard, non accreditati; espedienti per rendere tutto più swamp.
Il più rappresentato è l’armonicista Moses ‘Whispering’ Smith, con sette brani tra cui l’apprezzabile Looking the World Over, aprente il disco; Memphis Minnie, che l’incise nel 1941 per OKeh, lasciò il segno anche da quelle parti. Già spicca lo stra-suonare del batterista; sarebbe accettabile se si limitasse a questo episodio, e invece è più o meno così anche nel resto del set di Smith con la band.
Fu Lightnin’ Slim a presentare Moses a Jay Miller e quest’ultimo, com’era sua abitudine, gli appioppò subito uno pseudonimo, Whispering, in antitesi con il suo vocione profondo: quando Miller gli chiese di cantare Smith s’imbarazzò e lo fece sommessamente. Il produttore gli disse allora di tirare fuori la voce, cosa che Moses fece, sovraccaricando il microfono; il compromesso di farlo stare un po’ discosto diede al suo canto una qualità distante e cupa, come si sente nei quattro singoli Excello.
A Thousand Miles from Nowhere è la sua versione dell’affascinante One Room Country Shack di Mercy Dee Walton, con qualche variazione nel testo e la grave voce ronzante, in accordo con la sua armonica acustica. L’accompagnamento costante e morbido di Gray al piano lo rende cittadino, come quello della chitarra: l’influenza è del Chicago blues, e qui non poteva esser altrimenti. Non trovo molto utile (nell’economia del brano) l’overplay del batterista; è eccessivo fino al punto di cambiare il “groove”, e troppo alto nel mix, insieme al basso.
Deep South Mose è un uptempo strumentale funky adeso all’alba dei Settanta, con chitarra acida e wah-wah, armonica che ricorda lo stile ritmico di Junior Wells per l’uso di note in staccato, e ancora basso sopra. L’unica cosa che può rimandare allo swamp blues è l’ipotesi che lo Slim Harpo post-Miller, se avesse continuato a vivere e a fare certe sessioni nashvilliane, avrebbe forse insistito con dischi così (qualche esempio del genere lo lasciò proprio allo studio Woodland poco tempo prima).
Cold Black Mare è preso da Arthur Crudup (Coal Black Mare), con apparentemente due chitarre (una in fuzz tone), e ritmica preponderante di basso e batteria.
Nato vicino a West Brookhaven, nel Mississippi del sud, il 25 gennaio 1932, Moses cominciò a suonare l’armonica nel 1955, ispirato da suo cognato, Memphis Hennison (o Tennyson). Nel 1957 arrivò nell’area di Baton Rouge a causa di faccende familiari e non la lasciò più facendone la sua casa fino alla fine, il 19 aprile 1984. Registrò con Silas Hogan prendendo il posto di Sylvester Buckley, altro armonicista passato per Crowley.
Storm in Texas, la sua versione di Texas Flood, è la prima delle tre alla maniera back-porch, con la voce cavernosa accompagnata dalla sola armonica acustica e dal battito regolare di piede, Baton Rouge Breakdown è un country blues strumentale per armonica, una danza campagnola alla Sonny Terry, l’unica in cui Smith concede virtuosismo, mentre Baby Please Don’t Go è la celeberrima di Big Joe Williams, per voce, armonica e piede, dal respiro breve e intenso.
Just Give Me a Chance è il primo brano di Silas Hogan ed è uno swamp blues uptempo, un quasi rockabilly alla Lazy Lester, con riff di chitarra elettrica insistente. Un quasi sessantenne più fresco di un giovane rocker, e un canto che ricorda Jimmy Reed e Slim Harpo; quest’ultimo lo presentò a Miller.
Nato a Westover, Louisiana, il 15 settembre 1911, poteva reclamare d’essere il più anziano esponente del blues di Baton Rouge, insieme alla sua famiglia dalla lunga tradizione musicale, seguita anche da suo figlio Samuel e il nipote Oscar, entrambi batteristi.
È però l’intrigante, sotterraneo Dry Chemical Blues a spingerci nella palude alla maniera di Lightnin’ Slim. Suono moderno ma non molto distante dal richiamo nel titolo del disco, se non nello stile (raro, ad es., trovare un assolo di chitarra nello swamp blues, e ancor più in Otis Hicks), almeno nella ritmica e nell’atmosfera, grazie anche a un buon eco. Emblematico e profondo è anche I Didn’t Tell Her to Leave, con copiosi fills pianistici di Gray e che tanto ricorda l’umore e le stanze del Lightnin’ Hopkins elettrico, come il solitario Honey Bee Blues, dalle visioni di Memphis Minnie e con canto caldo e sommesso, rimanda a quello acustico.
Hoo Doo Blues è la sua versione per voce e chitarra elettrica di Hoo Doo Man Blues di John Lee ‘Sonny Boy’ Williamson, portato alla fama da Junior Wells, e ancora simil-Hopkins. Racconta Vernon che quando discusse la volontà di lasciare qualche traccia solistica Hogan fu il più ricettivo all’idea; in effetti è perfettamente a suo agio.
Quando cominciò a registrare, a Crowley per Miller, era già sui cinquant’anni (dal 1959 come accompagnatore, nel 1962/1965 a suo nome) e alcuni di quei brani videro la luce solo anni dopo sulle edizioni viniliche Flyright o su CD Excello, come quelli di una sessione per Lloyd Reynaud nello stesso periodo, non pubblicata fino all’uscita inglese su Sunnyland nel 1974. Oltre ad Arhoolie e questa, negli anni 1970 forse ebbe solo l’occasione di una manciata di brani registrati dal vivo a Baton Rouge nel 1972 per Lynn Ourso Jr, pubblicati su un album Excello. Nel decennio successivo uscì un singolo estratto da una serata nel locale di Tabby Thomas, altro grande assente, il Tabby’s Blues Box (v. articolo su Baton Rouge), per la sua etichetta Blue Beat, dove furono registrati poco dopo altri tre episodi evasi post-mortem su una raccolta Wolf. Nel 1988 registrò un album a suo nome per l’inglese non-profit Blues South West, poi dovette ritirarsi per motivi di salute, prima di morire nel 1994.
Vernon nelle note lo ricorda come un carismatico gentleman dalla parlata tranquilla e dalla vasta conoscenza musicale. Era arrivato a Baton Rouge nel 1939 per lavorare in una raffineria e trovò casa nei dintorni, Scotlandville, allora ancora ampiamente campagna e posto caro anche a Henry Gray, Lazy Lester, ‘Guitar’ Kelley, Robert Pete Williams, grazie alla vicinanza alla città e allo stesso tempo offrente i tempi dilatati ai quali erano abituati.
Arthur ‘Guitar’ Kelley nacque a Clinton, Louisiana, il 14 novembre 1924, e da adolescente imparò a suonare la chitarra grazie al cognato, Arthur Gerald, e a un vicino, Nance Williams. Una volta trasferitosi a Baker cominciò a esibirsi in giro nel periodo 1947-1950 circa, e nel 1951 divenne partner di Lightnin’ Slim fino agli anni 1960. Dal 1966 fu stanziale nell’area di Baton Rouge, esibendosi con Silas Hogan e lavorando spesso anche con il bassista Gene Douzier; di Kelley si sa poco altro, se non che è scomparso a Baton Rouge nel 2001.
Ascoltando Somebody Stole My Baby and Gone (ripresa di Let Me Be Your Hatchet di Silas Hogan), medio-lento ipnotico con batteria, percussioni, armonica, chitarra elettrica rada e pungente nella miglior usanza, ci si rende conto che l’influenza è anche qui del “fulmine” Hopkins. Nel voler accentuare lo stile swamp blues, il washboard è troppo alto di volume.
Nel mondo rarefatto di How Can I Stay (When All I Have Is Gone) è accompagnato ancora dall’armonica di Moses, chiamato con brother, play a while, e anche qui da una ritmica più adeguata rispetto a quella riservata al set del collega, plus il suggestivo suono di woodblock (alto). Il canto è baritonale e quieto, la chitarra, con bel suono riverberato, ne è il prolungamento: bello, ma molto simile al precedente.
Le incisive, solitarie, hopkinsiane, I Don’t Know Why e Number Ten at the Station (and Number Twelve Is on the Road) splendono di bel timbro vocale cupo e chitarra elettrica. La prima, innervata da un rallentato boogie sanguigno, mi ricorda anche il Joe Callicott di Laughing to Keep From Crying. Torna frequente il tema del trasferimento, del viaggio risolutore, con versi erranti come count the days I’m gone e sometimes I feel like leaving, but I don’t know where to go.
La prima volta di Kelley in uno studio risaliva solo a pochi mesi prima, nell’occasione Arhoolie già citata.
Il maestoso Lonesome Bedroom Blues, con canto superbo che sembra leggermente megafonato, introduce ai quattro titoli di Clarence Edwards, nato il 25 marzo 1933 a Lindsay, Louisiana, ai tempi vivente a nord di Baton Rouge in una piccola comunità chiamata Alsen. Il passo sembra districarsi tra arbusti paludosi in angosciosa solitudine, mentre il piano di Gray aggiunge enfasi e drammaticità. Un impietoso low down dirty blues alla Lightnin’ Slim.
Nel dixoniano e incalzante Let Me Love You Baby Edwards è sopraffatto da un accompagnamento non sottile in vena british blues, mentre Cooling Board, voce grave e chitarra acustica con bordone insidioso, evoca gli spettri del profondo Delta blues.
Edwards fu autodidatta, andò a lezione dai dischi della nonna, e I Want Somebody, qui acustica a differenza di quella contenuta nel disco in immagine, forse rimanda a quelle prime influenze, ma non si può non pensare a Jimmy Reed. Da ragazzo era in un gruppo chiamato The Boogie Beats insieme a uno dei suoi tredici fratelli, Cornelius, poi nei Bluebird Kings a metà anni 1950, quando una sera gli spararono a una gamba fuori da un club di Alsen.
Prima di queste sessioni fu registrato da Harry Oster tra il 1959 e il 1961 per Folk-Lyric con altri artisti, come il violinista Butch Cage (Country Negro Jam Session e The Country Blues), ma rimase sconosciuto fin circa la fine degli anni 1980, quando cominciò la seconda breve parte della sua carriera, dovuta soprattutto alla partecipazione nel disco dal vivo Louisiana Swamp Blues Vol. 1 (con Silas Hogan, Arthur ‘Guitar’ Kelley e Henry Gray), registrato nel 1987 nel locale di Tabby Thomas a Baton Rouge, il già nominato Tabby’s Blues Box. Là Edwards ha sonorità moderne, ma sempre radicate nella consuetudine sudista.
Grazie anche agli sforzi di Steven Coleridge il suo nome cominciò a essere conosciuto nel circuito dei blues festival, e quando arrivò l’offerta per un tour europeo sembrò che per Edwards cominciasse una vita migliore. Purtroppo però stava sviluppando un’infezione attribuita (nelle fonti) a un’allergia alla vernice sul collo della chitarra, provocandogli così tanto dolore sotto le dita da dover smettere di suonare. (3) Soffrì l’ingiustizia finale quando fu licenziato perché in esubero dal cantiere di demolizioni (Thomas Scrap) in cui prestava servizio da trentatré anni, senza liquidazione e nessun tipo di aiuto. Morì a Scotlandville il 20 maggio 1993, ricordato come un uomo tranquillo e introverso.
Henry Gray apre il suo turno in un uptempo urbano tirato dalla chitarra, Can’t Last Too Long, con canto che sembra preso da un microfono panoramico: volente o nolente, è una brutta copia dello stile Howlin’ Wolf / Hubert Sumlin, ed è l’unico brano con la band.
Nato il 19 gennaio 1925 a Kenner, sobborgo di New Orleans, crebbe anche lui ad Alsen. La sua famiglia non aveva particolari trascorsi musicali, ma in casa c’era un pianoforte che Henry cominciò a suonare da bambino, aiutato da una pianista vicina di casa. Fu però quasi completamente autodidatta, e tre anni dopo possedeva un piccolo repertorio di inni e spiritual, diventando organista alla locale chiesa battista.
Il blues lo imparò alla radio e da lì il sogno di andare a Chicago, cosa che poté fare solo nel 1945 dopo il congedo militare, attirato da pianisti come Sunnyland Slim, Roosevelt Sykes, Eddie Boyd. Se il celebre Worried Life Blues di Big Maceo Merriwheater è stato ripreso da una moltitudine di pianisti e non, nel caso di Gray il motivo si trova maggiormente per il fatto che il pianista georgiano fu la sua maggior influenza, ma vi si sente pure Sykes. (4)
Lo strumentale ballabile Gray’s Bounce, di fatto un boogie, è un esempio del suo stile percussivo, il cosiddetto “two-fisted piano”, (5) con una mano sinistra forte e ripetitiva base accordale per le brillanti variazioni della destra, modo (comunque di vecchia tradizione, e sicuramente determinato in lui da Merriweather, data la sua potente mano sinistra) che si può sentire con carattere più prettamente luisiano anche in Katie Webster, che da quel termine ne ha tratto una definizione per se stessa, titolo di un suo noto album.
Lo shuffle medio-lento di Showers of Rain conduce a Chicago, città in cui cominciò a esibirsi nel South Side con il suo gruppo e dove incontrò la crema del blues, Muddy Waters, Howlin’ Wolf, Little Walter grazie all’introduzione di Merriwheater, che gli permise di iniziare una lunga carriera come accompagnatore in studio di questi e altri grandi nomi del Chicago blues. S’unì alla band di Chester ‘Howlin’ Wolf’ Burnett nel 1956 per dodici anni consecutivi, ma non registrò molto in studio con lui. Mi risultano solo tre date sparse (1955, 1961 e 1966); in compenso fu in tante altre sessioni Chess.
Nel 1968 Gray tornò a vivere ad Alsen per assistere la madre vedova. Accompagnato da Lazy Lester e i fratelli Moore (Wilfred, Wilbur ed Herbert) registrò quattro titoli per Blues Unlimited. Due di questi furono più tardi rilasciati su Flyright, poi arrivò la sessione Arhoolie del 1970. Ha continuato a registrare, pur sporadicamente, in particolare un album per Blind Pig nel 1988 l’ha portato alle attenzioni internazionali, e ha continuato a fare tour in Europa estensivamente negli ultimi anni.
Molto merito della rinascita di interesse verso di lui e altri bluesman della Louisiana va a Steve Coleridge, e a Henry Gray stesso e Tabby Thomas l’aver mantenuto vivo il blues localmente.
Pigro, meditabondo, a volte morbido a volte pungente, idealmente magico, è il blues della Louisiana e questo disco tenta di esserne un buon esempio, con esiti variabili, tra l’impianto più o meno riuscito attorno ai solisti e lo spessore più o meno derivativo.
(Fonti: Note di Mike Vernon al CD CHD661 Swamp Blues di Ace Records Ltd, 1997; Note di Bruce Bastin all’LP Rooster Crowed for Day, The Legendary Jay Miller Sessions Vol. 3, Flyright 518; Forum di Weenie Campbell, thread in cui si riporta un resoconto di Vernon su quelle giornate tratto integralmente da un articolo apparso su Sounds, un settimanale inglese, il 10 ottobre 1970, pag. 32. Tutte queste fonti hanno valore come cronaca di quei giorni, ma non sono del tutto affidabili come sorgente di notizie bio-discografiche sugli artisti coinvolti.)
Aggiornamento: ho rimosso il collegamento alla pagina del forum di Campbell perché non più rintracciabile.
- Non a caso sempre con la produzione di Terry Pattison, insieme al titolare dell’etichetta, Chris Strachwitz.[↩]
- Schaefer, detto ‘Little Guitar’ sia per i suoi sedici anni che per la sua taglia, era un protetto di Vernon in quanto membro della band-meteora losangelena Bacon Fat, pubblicata da Blue Horizon.[↩]
- Non c’è scritto nulla di più riguardo a questo, quindi può nascere qualche dubbio sul fatto che tutto ciò sia stato provocato da una vernice già posata o, perlomeno, mi pare strano che non vi si potesse trovar rimedio semplicemente cambiando chitarra, con vernice diversa o non verniciata.[↩]
- Rimane che, secondo me, è stato Otis Spann l’erede diretto di Merriweather.[↩]
- Udibile anche in certi strumentali di Spann, ma in lui lo sento come corollario e cosa acquisita, non come stile preminente.[↩]
È vietata la riproduzione anche parziale di questo articolo senza autorizzazione
Recensione molto interessante, su artisti il più delle volte dimenticati come Lonesome Sundown… Forse il più “abusato” è Slim Harpo. Fortunatamente la ACE ha in catalogo del buon materiale per chi volesse avvicinarsi a questi artisti.
Slim Harpo fu il successo commerciale di J.D. Miller e definì lo swamp blues. Per altri afroamericani della scuderia Miller certe atmosfere sono decisamente e anche più ruvidamente swamp, ma pescano direttamente nella tradizione popolare, blues e R&B “classica”. Ad esempio c’è il lato rockabilly di Lazy Lester (quello di I’m a Lover Not a Fighter per intenderci, ma non solo) e quello delle ballate country, mentre Lightnin’ Slim era un bluesman tradizionale proveniente da uno Stato centrale: si può certamente considerare capostipite di quello stile, anche per il carattere laconico, tuttavia l’atmosfera “paludosa” della sua produzione Miller era maggiorata dai particolari accompagnamenti ritmici, di Lester, ‘Jockey’ Etienne, eccetera.
“Excello sound” è una forzatura dato che nasceva tutto in quegli studi di Crowley; Excello stampava solo il materiale e lo distribuiva.
Gran bell’articolo. Mi permetto di condividere qualcosa sull'”abusato” ( e forse a ragione) Slim Harpo, considerato che tempo fà avevo anche tempo per scrivere qualcosa [-link rimosso perché non più esistente-], tra le definizioni più efficaci ricordo quella di Guralnick sul modo di cantare di James Isaac Moore “come se contemporaneamente un cantante nero e un cantante bianco di blues stessero tentando di impersonare un membro del genere opposto”.
Per il resto effettivamente è da tempo che dovresti scrivere qualcosa su Lazy Lester 🙂 Ho avuto la fortuna di passare del tempo con lui nel 2007 e l’onore di suonarci insieme. La cosa che però ricordo con più piacere non è avvenuta sul palco, ma nella sua camera d’albergo tra bottiglie di vodka, birre e la sua compagna Pike che lo guardava ammirato, prese la sua marine band e cominciò a suonare alle 3,00 del mattino, piazzandosi in piedi davanti a me prima di salutarci, mi sembrava di vedere il miele scendere tra le mani che tenevano l’armonica. Naturalmente mi sono bevuto ogni nota di quel nettare con le lacrime agli occhi, prima che il portiere di notte ci cacciasse via dall’albergo.
Arriverà, forse sono più lazy io di Lester
Piccola domanda che non c’entra nulla ma i simboli vicino ai nomi come vengono attribuiti? 🙂
Si chiamano avatar e sono generati a partire dall’indirizzo email. Ho scelto così piuttosto che uno generico uguale per tutti, anche se neppure il mostricciattolo è identificabile con l’autore del commento, forse. Nel tuo caso la bestiola ti si addice…
Se ne vuoi uno personale da usare sui siti che sono abilitati vai su Gravatar-Avatar riconosciuti globalmente e segui le istruzioni. Naturalmente dovrai usare lo stesso indirizzo e-mail quando vorrai mostrarlo.
La bestiola mi si addice effettivamente….:)
Gracias..