Veronica and The Red Wine Serenaders – The Mexican Dress
Quinto disco in studio per quest’unione lombarda che continua a spargere come niente fosse bella musica d’epoca acustica, con competenza, freschezza e una naturalezza che speriamo non venga a mancare mai. Ciò che risalta ancora una volta è la validità dell’approccio nei confronti di materiale così prezioso che, dopo aver evitato l’estinzione per merito della sua eterna suggestione, in mani non appropriate potrebbe ricevere un colpo funesto.
Mettere in atto quella che per semplicità possiamo chiamare eufonia è più immediato di quanto si possa pensare, per chi la sente e la possiede, e in questo senso le attese sono di nuovo pienamente soddisfatte. Piuttosto è da temere, soprattutto quando si sostiene il peso dell’aspettativa, il rischio di perdere strada facendo quel delicato equilibrio che impedisce di usare la musica in primo luogo per promuovere se stessi. Mi preoccupa ad esempio la deriva del concetto che per fare un disco si raccolgano fondi come se si trattasse di questione umanitaria.
I brani sono quattordici più una traccia fantasma, con sei originali (per loro è una novità) a partire dal molto riuscito title track, firmato Sbergia-De Bernardi. È convincente la leggerezza con retrogusto “serio” con cui rendono il bisogno di buttare la noia o i dispiaceri alle spalle preparandosi a una festa (rossetto rosso, scarpe da ballo, fiori nei capelli e quel vestito messicano così allegro…), fosse anche solo inteso in questo senso: la festa e il divertimento sono il disco stesso, e questo brano annuncia di fatto ciò che segue. Oltre al canto eloquente di Veronica è fondamentale il supporto delle corde latin tinged di chitarra, contrabbasso e mandolino a rincorrersi nei brillanti interventi solisti del chorus strumentale.
Per la maggior parte non so chi suona cosa o dove, dato che non c’è nessun credito (forse perché ho la versione promo?). Al di là quindi del nucleo che conosco ritratto nel retro — Veronica Sbergia, voce, ukulele, washboard e kazoo, Max De Bernardi, voce, chitarre acustica e resofonica, banjo a sei corde, e Dario Polerani, contrabbasso e backing vocals — da fonti in rete riporto la partecipazione di Massimo Gatti (mandolino), mentre nel comunicato stampa leggo che per la parte americana registrata (da Mark Simmons) ai Pacific Studios di Tacoma, WA (ben dieci tracce), c’è il sostanzioso contributo di Denny Hall, autore di tre dei brani originali e alle prese con mandolino resofonico, bouzouki, uilleann pipe, snare drum, di Joel Tepp, jug e clarinetto, entrambi anche voci di supporto insieme a Dan Wilson e Don ‘Big D’ Swensen, e infine Tom Hume al contrabbasso in due tracce. I rimanenti cinque brani sono invece nati al SuonoVivo Recording Studio (Bergamo) da Dario Ravelli, che ha eseguito anche il missaggio finale.
Gli altri due episodi autografi sono il delizioso interludio Crying Time, torch-song consono alle sciantose degli anni Venti e pure a Sbergia e il suo ukulele, arricchito dal mandolino, e The Resurrection of the Honey Badger, finger-picking strumentale di De Bernardi, in solitaria sulla National resofonica e in linea con la tradizione folk dei virtuosi chitarristi della costa est, dedicato al tasso del miele, resistente animaletto che ingerendo il veleno del serpente che sta azzannando non muore ma cade in una catalessi che non gli impedisce, al risveglio, di continuare la precedente attività.
I brani di e con Denny Hall — multi-strumentista e songwriter a monte dei Nite Café, formazione dell’estremo nordovest americano i cui strumenti e suoni vintage raccolgono tradizione europea, folk songs e country blues anteguerra — si amalgamano al resto e si realizzano nel folk-blues Didn’t Mean a Thing con chitarra e mandolino resofonici (credo), ritmi aggiunti dal washboard e De Bernardi molto bene anche al canto, nella dolcissima ballata Curse the Day, richiamante il folclore irlandese anche prima dell’entrata del flautato suono dell’uilleann pipe, con Veronica che (non volutamente) ricorda le melodie di Sandy Denny, e nell’odor gospel di Gloryland, vivace tempo medio call and response che piacerebbe a Mavis Staples.
I restanti passaggi sulla macchina del tempo pescano nel variopinto repertorio del primo, verace jazz e country blues del sud, con qualche eccezione come il disincantato e allegro When the Music Sounds Good di Bumble Bee Slim, buon rappresentante del jazz anteguerra di Chicago, il rimando al vaudeville bianco Shine on Harvest Moon, classico appartenente al repertorio romantico di Tin Pan Alley dal sapor hawaiano (la chitarra pizzicata mi ricorda Chet Atkins), e Who’s That Knocking at My Door, accattivante motivetto (catchy tune, direbbero gli inglesi) della scena newyorchese dei primi Novecento tra ragtime e jazz con saporiti inserti di clarinetto, dal repertorio della flapper girl Hannette Hanshaw ben interpretata da Veronica, adatta a brani spumeggianti e disimpegnati come questo.
L’evocativo blues medio-lento Weed Smoker’s Dream (Why Don’t You Do Now) ha incipit parlante di kazoo e si svolge su passi ben scanditi e robusti di chitarra e contrabbasso, con eco di washboard. È l’antesignano del celeberrimo Why Don’t You Do Right; Kansas Joe McCoy lo scrisse e lo registrò con i suoi Harlem Hamfats, prima di cesellarne i versi per Lil’ Green.
Ritmo brioso di banjo, washboard, jug, sulla chiamata-risposta tra Veronica e le voci maschili in Caught Us Doing It, che ho sentito nella bella raccolta Them Dirty Blues eseguita dagli Hokum Boys (là sono Bill Settles, Big Bill Broonzy, Casey Bill Weldon e Teddy Edwards), mutanti spesso componenti ed etichetta, ma non le tematiche dei risqué song, canzoni umoristiche a doppio senso. Erano la specialità di Thomas A. Dorsey (che fu appunto un hokum boy), il quale prima di assestarsi come padre del gospel di Chicago tentennò più volte dai canti religiosi al blues. Anche Banana in Your Fruitbasket di Bo Carter è un hokum, e altra conferma delle qualità vocali di De Bernardi, con tono e nuance interpretativa apprezzabili.
Il traditional Paul and Silas (Bound in Jail), gospel rurale nel repertorio di Josh White e forse nato tra gli Appalachi, qui è concentrato in efficace duetto tra i titolari, che si accompagnano con chitarra resofonica e washboard. Sono infine altrettanto degne di nota la limpida rivisitazione di nonna Victoria Spivey da parte di Veronica con Dope Head Blues, dapprima sola con l’ukulele poi raggiunta dalla chitarra per un più che convincente rendimento di fughe artificiali, con le consuete iperboli blues dettate dalla fantasia, qui allucinata, e la sorpresa finale come traccia nascosta della serena Baby Please Loan Me Your Heart di Papa Charlie Jackson, per banjo, washboard e clarinetto (Joel Tepp), quest’ultimo concedente un solo e un accompagnamento jazzy da gustare fino in fondo, esattamente come tutto il resto.
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