The American Folk Blues Festival 1962-1969, Vol. Three
Il terzo volume dell’American Folk Blues Festival offre altre diciotto performance, di cui solo sei prodotte da Horst Lippmann per la stessa televisione tedesca che diede inizio alle riprese dei bluesman americani in Europa (vedi volumi 1 e 2), tratte dai festival del 1962, 1965 e 1966.
Altre nove del 1967 provengono dalla televisione danese, una dal tour del 1969 con Earl Hooker e infine due non-AFBF di Muddy Waters ripreso in Germania nel 1968.
Il reperto più antico risale appunto al 1962 ed è per Helen Humes, generoso, adorabile soprano blues udibile però purtroppo brevemente perché in The Blues Ain’t Nothin’ but a Woman divide le parti con i colleghi, come avveniva nel finale delle trasmissioni in cui a turno gli artisti interpretavano con proprie strofe il brano designato per i saluti. La ricostruzione è quella di un club afroamericano e gli altri solisti in vece di accompagnatori sono T-Bone Walker, Memphis Slim, Sonny Terry e Brownie McGhee, e Willie Dixon, mentre alla batteria s’intravvede ‘Jump’ Jackson.
Le quattro testimonianze del 1965 sono all’inizio del DVD e partono con Big Mama Thornton che porta Hound Dog accompagnata da Buddy Guy, qui alle prese con l’imponente chanteuse e il suo signature song per la prima volta. Non ci furono prove, e le riprese negli studi televisivi tedeschi di solito erano il debutto degli artisti dell’American Folk Blues Festival in quanto prima tappa del tour. Gli altri sono Eddie Boyd, Fred Below e Jimmie Lee Robinson, sezione elegante che fornisce accompagnamento impeccabile; seduto in scena ad assistere si nota Fred McDowell, ascoltabile nel primo volume.
La band è la stessa che poi l’accompagnerà nella registrazione di Live in Europe quando il festival toccò l’Inghilterra, paese in cui Thornton impressionò: Paul Oliver commentò l’ultimo concerto a Londra descrivendone l’humour, gli slogan e l’interazione con Buddy Guy. E Buddy Guy è tutto da godere quando con la stessa sezione (tranne il pianista Boyd) esegue Out of Sight di James Brown, muovendosi come un serpente in un’interpretazione che chiama dentro anche Papa’s Got a Brand New Bag.
Guy è tutt’uno con la chitarra e l’umore del brano, e convoglia così bene lo spirito di Brown che nel suo approccio ritmico si sentono anche i riff dei fiati, con assoluta complicità di J.L. Robinson e Below. Un altro esempio della miglior dottrina blues messa in pratica: suonare poco e bene.
Di diverso parere fu il pubblico che durante il tour lo fischiò per l’approccio non tradizionale (in qualità di solista), fattore che insieme alla giovane età lo fece apparire come un outsider. Oggi non fa alcuna differenza se Guy suonava soul, blues o soul/blues; allora più che oggi il principio e l’attitudine dei vari linguaggi blues si fondevano, ma il pubblico europeo voleva sentire il vecchio blues, non i successi del momento. Non c’è da biasimarlo dato che è ciò che vogliamo anche oggi, la differenza però è che a quei tempi ciò che era moderno aveva la stessa valenza del classico, non per niente è arrivato ai giorni nostri.
A tal proposito Guy ha poi dichiarato che non sapeva cosa lo aspettasse in Europa e che nessuno gli aveva specificato che doveva suonare il blues, perché a casa Chicago per poter esibirsi in un locale bisognava sapere i top ten nel juke-box, e ovviamente James Brown in quel periodo era tra quelli. Comunque, data la pessima accoglienza, Guy tolse il brano dal repertorio per il resto del tour.
Guy era già stato in Inghilterra all’inizio dell’anno apparendo nella trasmissione televisiva Ready Steady Go!, la quale dimostrò come i presentatori inglesi non avessero nulla da invidiare a nessuno in termini di impreparazione. Una certa Cathy McGowan, infatti, lo annunciò come Chuck Berry; svista forse anche perdonabile se non fosse che poi nello scusarsi si riferì a lui come a Chubby Checker (non è necessario essere stupidi per lavorare in tivù, però aiuta!).
È invece in solitaria Roosevelt Sykes, che tornò in Europa con il festival anche l’anno dopo (vedi vol. 2) e che qui presenta un disco del 1960, Gulfport Boogie, mostrando il suo stile florido e declamatorio formatosi negli stati centrali tra Midwest e sud negli anni 1920/1930 e nei barrelhouse dei campi di lavoro. Mani piccole ma veloci offrenti un boogie-woogie antico che sa di trementina e polvere, con leggera venatura ragtime.
L’one-man band di Tunica Dr Isaiah Ross, personaggio radiofonico degli anni 1950 in leggendarie stazioni come WDIA, KFFA e WROX, porta invece una sana ventata di Memphis e di proto rock ‘n’ roll interpretando un brano Sun Records, Feel so Good di Junior Parker, mediante l’ispirazione di un altro artista di Sam Phillips, l’one-man band per eccellenza Joe Hill Louis che lo impressionò all’Handy Park di Beale Street; lo stesso Ross tracciò dei solchi nel noto studio ed etichetta.
Del 1966 davanti a una platea teatrale c’è l’impetuoso Big Joe Turner con uno dei suoi cavalli di battaglia, Flip, Flop and Fly, bordato stretto dallo swing serrato, asciutto e jazzy portato dai suoi accompagnatori, Little Brother Montgomery, Otis Rush, Jack Myers e l’incorruttibile Fred Below, così parchi che neppure per scherzo al momento degli assolo gli rubano la scena.
Ho la sensazione che Big Joe sarebbe stato pronto a spettinare maggiormente la tranquilla platea con le sue improvvisazioni e il suo shouting carnoso e dilagante se il ritmo si fosse aperto e allentato, ma anche questa conduzione imperturbabile è a suo modo irresistibile, oltre che invidiabile.
Buona parte di questo volume si concentra sul festival del 1967, ma la stazione televisiva (Südwestfunk di Baden Baden) che nei cinque anni precedenti aveva immortalato in studio gli artisti con una versione ridotta del “pacchetto” che poi sarebbe stato proposto nei concerti, nel 1967 e 1968 rinunciò (a fare le riprese in Germania in quei due anni fu un’altra televisione, Westdeutscher Rundfunk di Cologne, e si trovano nel DVD Legends of The American Folk Blues Festivals, del 2009).
Ci pensò quindi la televisione danese a filmare la troupe quando arrivò a Copenaghen l’11 ottobre 1967. Il filmato seleziona mezz’ora e privilegia le parti acustiche del concerto, e fu messo in onda come si vede qui, cioè con i musicisti acustici uno dietro l’altro e in tutto solo due brani elettrici con la band.
In realtà gli spettacoli di quell’anno vedevano Bukka White e Skip James aprire rispettivamente la prima e la seconda parte del concerto e Son House chiudere la prima, mentre nel corpo delle due parti la band accompagnava in elettrico i tre solisti, Hound Dog Taylor, Little Walter e Koko Taylor, prima che Sonny Terry & Brownie McGhee terminassero la serata.
Si parte con Skip James, tipo schivo cresciuto in una piantagione nei pressi di Bentonia, MS (v. link), dove imparò a suonare l’organo, il pianoforte e la chitarra. Nel 1931 lasciò ventisei incisioni a Grafton, Wisconsin per Paramount grazie a un contratto e un biglietto del treno guadagnati con l’audizione davanti al talent scout H.C. Speir di Jackson, MS, ma poi, dopo aver aspettato un riscontro che non avvenne – era il periodo della Grande Depressione e le vendite dei dischi crollarono – si allontanò dal blues e divenne ministro battista e metodista, dirigendo il coro gospel nella chiesa del padre.
Le registrazioni però passarono alla storia e nell’epoca del blues revival diventarono leggenda, complice l’inusuale stile vocale, e la tecnica e l’accordatura di Skip sulla chitarra (anche sul pianoforte era originale), fino a che fu ritrovato nel 1964 da John Fahey, Henry Vestine e Bill Barth in un ospedale della contea di Tunica, Mississippi. Solo poche settimane dopo, nonostante la malattia e il lungo digiuno musicale, fu portato sul palco del Newport Folk Festival con una chitarra in prestito, ma il tardivo successo durò poco perché morì nel 1969. James non fu mai troppo convinto dell’interesse suscitato presso il nuovo pubblico, sentendosi a disagio davanti agli “occhi sbarrati e alle impassibili facce bianche” (parole di Stephen Calt).
La poetica e realista All Night Long è simile a If You Haven’t Any Hay (del suo ispiratore Henry Stuckey), ma c’è qualche differenza (di testo, accordi, tempo), entrambe incise da Skip anche con il piano e a loro volta varianti di uno standard d’inizio secolo scorso, Alabama Bound (aka Elder Greene o Don’t Leave Me Here). Anche Crow Jane, altro prestito della tradizione, è potente e suggestiva, e ben simboleggia la natura della musica di James, profonda e introversa, pervasa da un senso di macabra fatalità e stilisticamente più vicina al ragtime che al country blues. Il suo falsetto è una spada affilata, trasformato in mugugno quando sospende il refrain: ancora una volta l’accenno diventa magia più delle parole compiute. Il suo sguardo, alla fine, vale tanto uguale.
Anche Bukka White entrò nel travolgente revival (in buona parte causato proprio dall’American Folk Blues Festival) che rese di colpo il vecchio blues affascinante per una platea di giovani bianchi che solo poco prima ne ignorava l’esistenza, lui probabilmente spinto dalla ripresa del debuttante Bob Dylan del suo Fixin’ to Die Blues. Il rintracciamento di Bukka da parte di John Fahey nel 1963 fu semplice e sorprendente: indirizzò una lettera a “Bukka White (Old Blues Singer), c/o General Delivery, Aberdeen, Mississippi”, basandosi sul suo Aberdeen Mississippi Blues. White si trovava a Memphis, ma la missiva gli fu recapitata grazie a un parente che lavorava alle poste di Aberdeen.
Cugino di B.B. King e suonatore di violino alle feste popolari, Booker T. iniziò la sua discografia incidendo anche materiale religioso per Victor nel 1930. Nel 1937 si recò a Chicago per registrare prodotto da Lester Melrose per Vocalion, ma fu recuperato dalla polizia avendo infranto la custodia in attesa del processo a suo carico per aver sparato a un uomo in una gamba in legittima difesa, e portato a Parchman Farm, dove scontò tre anni. Tra quei blues, Shake ‘Em on Down fu un successo mentre era rinchiuso in prigione, dove però registrò per Alan Lomax nel 1939. Qui sulla sua National Duolian invade con Got Sick and Tired, e il volume che produce, insieme allo slide nel mignolo, non sovrasta la sua vocalità profonda e vibrante, nel filone stilistico che va da Charlie Patton ad Howlin’ Wolf.
Caratteristico suonatore di National steel anche Eddie J. Son House, che con Bukka ebbe in comune Parchman Farm, per una similitudine: nel 1927 uccise per legittima difesa l’uomo che lo ferì a una gamba mentre questi sparava a caso in un juke joint.
Come Skip James fu influente su Robert Johnson e salì al festival di Newport, dopo esser stato ritrovato nel 1964 da Nick Perls, Dick Waterman e Phil Spiro alla fine di un viaggio di ricerca lungo tre settimane che condusse a Rochester, NY, luogo in cui s’era ritirato un anno dopo aver inciso via Lomax per la Library of Congress nel 1941 e 1942 (v. Clack Store). Amico e sideman di Charlie Patton (House sposò la sua vedova, Bertha Lee), fece lo stesso viaggio di Skip verso Grafton, WI, un anno prima (1930), in auto con Patton, Willie Brown e la pianista Louise Johnson, lasciando nove lati per Paramount.
Dopo Lomax passò vent’anni in cui suonò solo occasionalmente (lavorava come operaio per la New York Central Railroad) e niente del tutto da qualche anno prima della riscoperta, ma già solo Death Letter Blues dimostra che il blues non l’aveva abbandonato, compagno di vita dalla nascita. L’accento ritmico e il canto ieratico rivelano l’altra metà di preacher, e perfino Skip James, di solito poco incline ad aperture, lo applaude, anche se questa non è una delle sue prestazioni più coinvolgenti.
La parte elettrica seleziona due brani e nessuno con Little Walter solista, ma solo come accompagnatore. Uno è Wild About You proposto da Hound Dog Taylor – ai tempi pressoché sconosciuto e supportato anche da Odie Payne alla batteria e Dillard Crume al basso – in una performance non troppo brillante in cui reitera lo stesso riff alla Elmore James, eludendo una qualsiasi parte ritmica.
L’altro è il dixoniano Wang Dang Doodle di Koko Taylor (già di Howlin’ Wolf), hit da 4º posto nella classifica R&B nella primavera 1966 e lanciante la carriera della regina del blues di Chicago.
Quell’anno Willie Dixon non andò e la scelta di Crume, membro dei Soul Stirrers e dei Crume Brothers, fu criticata da più parti, e critiche furono le prestazioni di Hound Dog Taylor nel ruolo di sideman. Taylor era un chitarrista approssimato anche come solista, ma in quel caso funzionava in modo diverso, anche grazie ai suoi storici accompagnatori (Brewer Phillips e Ted Harvey); nel tour europeo invece evidenziò di non essere adatto al ruolo di accompagnatore (in questo si può paragonare a John Lee Hooker, che però era un solista molto carismatico dotato di personalità, ispirazione e voce) fornendo un pattern ritmico/armonico scarno e limitato mal sopportato soprattutto da Little Walter, abituato al sostegno sofisticato dei Myers e Lockwood, tanto che l’armonicista non si trattenne dal rilasciare alla stampa epiteti poco carini sul collega.
Per quanto riguarda le performance di Walter, l’innovatore dell’armonica amplificata e attraverso essa inventore di un nuovo linguaggio imprescindibile, fin dall’inizio del tour (il 6 ottobre a Stoccolma) fu costretto a suonare in acustico davanti a un piccolo microfono su asta, lo stesso usato per la voce, privandolo quindi non solo di quella dinamica e di quei suoi tipici toni e timbri ottenuti via amplificatore, ma anche della possibilità di mettere il microfono a coppa tra le mani.
Ciò implicava anche la difficoltà di non sentirsi in mezzo al suono della band, e di non farsi sentire lui, specie nei concerti. Nel suo precedente viaggio inglese del 1964 (non sotto l’egida AFBF, e di cui risulta solo una serata) perlomeno aveva potuto attaccare un microfono per l’armonica a un amplificatore per chitarra, o tutt’al più tenere a coppa insieme all’armonica il microfono vocale; non era l’ideale per lui ma gli aveva permesso di avvicinarsi a ciò che poteva ottenere. Per tale motivo, forse, qui il suo sguardo tradisce nervosismo e disagio.
Sonny Terry & Brownie McGhee, visibili anche nei due precedenti volumi dal tour del 1962, chiudevano gli spettacoli e qui chiudono il filmato danese con tre brani, Stranger Blues, Burnt Child (Afraid of Fire) e Gonna Move across the River.
Il percorso di Terry e McGhee fu molto diverso rispetto a quello dei colleghi country blues visti sopra, non solo a livello stilistico ma anche carrieristico, rimanendo sulla scena dal loro incontro, avvenuto nel 1941 sulla East Coast, fino alla fine degli anni 1970. Ebbero buon successo nelle città di Washington e New York, con trasmissioni radio da Broadway, e furono sulla nascente scena del folk revival, dalla costa nordest echeggiante in California nei ritrovi e nei campus universitari, e di rimbalzo nei festival di mezza America. Tra i più noti esponenti moderni del Piedmont blues, espresso con grande affinità di coppia ed efficacia ritmica, sono sempre piacevoli all’ascolto e alla vista, ma a quel punto si vede come la loro formula sempre uguale, almeno quella proposta con l’American Folk Blues Festival, avesse perso spontaneità e genuinità.
I bonus track sono tre, di cui due di Muddy Waters registrati il 24 ottobre 1968 non in seno al Festival, ma con la stessa televisione Südwestfunk per un programma chiamato History of Soul che comprendeva anche Joe Simon, The Stars of Faith, Horace Silver e Jon Hendricks. In quest’occasione Muddy era in tour europeo con la sua band, a quei tempi formata da Pee Wee Madison, Luther ‘Snake’ Johnson, Paul Oscher, Sonny Wimberley, S.P. Leary e l’inossidabile Otis Spann, ed esegue dal vivo davanti a una platea teatrale i suoi due super-classici Long Distance Call e Got My Mojo Working. Belle le inquadrature su Muddy che colgono le espressioni facciali e le mani sulla chitarra, e di Leary che si diverte tra piatti e tamburi. Inquadrature ravvicinate anche per il diciottenne Paul Oscher, il primo bianco a entrare nella band di Muddy, band ineccepibile e con il leader molto impostato, fiero e solenne. Nei filmati europei non ho mai visto Muddy lasciarsi andare o cantare in modo naturale, ma il suo carisma e la sua musica stanno sopra tutto.
A seguito delle tournée 1967 e 1968, Lippmann e Rau furono criticati sulle riviste inglesi di blues che consideravano la proposta ormai “stanca e banale, priva di fantasia”, e un sondaggio di Blues Unlimited tra i lettori agli inizi del 1968 rivelò che molti avrebbero voluto vedere o rivedere artisti meno noti, come Earl Hooker, Lafayette Leake, Katie Webster, Henry Gray, e accompagnatori come Fred Below e Jack Myers.
Forse fu cogliendo questi appunti se nell’organizzare la scaletta del 1969 gli impresari tedeschi non chiamarono Willie Dixon, ma il titolare di Arhoolie Chris Strachwitz (che tra l’altro parlava anche il tedesco), che si concentrò su personaggi legati alle tradizioni regionali del sud, vale a dire sui suoi artisti. Dalla Louisiana arrivò un rappresentante esemplare, Clifton Chenier, dal Texas Juke Boy Bonner e l’arcaico pianista Whistlin’ Alex Moore, dalla Virginia il pressoché sconosciuto chitarrista acustico John Jackson, mentre da Chicago Earl Hooker, Carey Bell e Magic Sam, quest’ultimo presente in due episodi nel volume 2, e tutti nel sopra nominato DVD “Legends”.
Qui di quel tour si vede Earl Hooker (inserito anche nel vol. 1 con altri due bonus track dalla stessa occasione) in Earl’s Boogie, non un vero boogie ma un blues a tempo medio accompagnato dal favoloso batterista di Chenier, Robert St Julien, e il bassista di Magic Sam, Mac Thompson (aka Mack Thompson), fratello del cantante Syl Johnson e del chitarrista Jimmy Johnson.
Purtroppo dura solo un paio di minuti, ma chi già lo conosce sa che è un piccolo esempio del suo talento originale e creativo come pochi, unito a una tecnica sopraffina. Qui aveva quarant’anni e a quel punto finalmente stava per essere universalmente riconosciuto, tardivamente perché a causa di una tubercolosi che lo affliggeva da anni aveva sempre lasciato indietro il canto, concentrandosi su sorprendenti strumentali apprezzati però dagli intenditori e dai musicisti più che dal pubblico medio.
Nell’ottobre 1969 s’imbarcò nella tournée American Folk Blues Festival avendo immediato successo e vivendo la sua prima celebrazione attraverso venti concerti in ventitré giorni in nove paesi. Troppi per la sua salute precaria tanto che, al ritorno a Chicago e dopo diversi altri concerti in zona, fu ricoverato in clinica, dove morì pochi mesi dopo.
(Fonti: Note di Rob Bowman a The American Folk Blues Festival 1962-1969, Vol. Three, Reelin’ in the Years Productions, S. Diego, California, 2004).
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