Sunflower River Blues & Gospel Festival, Clarksdale, MS
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Saltiamo l’Educational Program e Leo ‘Bud’ Welch per l’Acoustic Stage n. 3 (più sotto), poi torniamo al tendone per Sharde Thomas and The Rising Star Fife & Drum Band.
Soprannominata “Fifemastor”, è la nipote di Othar Turner e tiene in vita il nome e la tradizione della band fife and drum fondata dal nonno. Turner fu l’ultimo ad andarsene tra i vecchi, rari esponenti di questa antica usanza, come Napolian Strickland e Sid Hemphill. La nipote di Sid, Jessie Mae, fu anch’essa un prolungamento, ma suonando i tamburi e arrivando alla notorietà tardivamente come chitarrista e cantante blues. Sharde è ritenuta l’unica erede del tradizionale flauto di canna in qualità di leader di una fife & drum band. L’approccio di Jessie Mae Hemphill, in relazione a un’espressione musicale relegata in ambito familiare e comunitario, era ancora simile a quello dei nonni, per questioni di epoca e di una non ancora rilevanza internazionale. Sharde invece ha a che fare con i tempi moderni, con la comunicazione di massa, e l’esposizione mondiale di un atto prima appartenente solo al folklore cambia per forza le modalità.
Un flauto traverso di canna, un rullante e una grancassa sono il nucleo base originario delle prime bande di musica da campo, nate in ambito militare per accompagnare i soldati in marcia e per vari segnali (orari, allerta, eccetera), presenti quindi nella vita quotidiana delle truppe e a volte anche in battaglia. In Europa l’origine del flauto di canna e dei tamburi (di per sé strumenti preistorici) nell’insieme poi chiamato “fife & drum” risale almeno al XIII secolo.
L’ingresso degli afroamericani in questa storia origina a prima della Guerra Civile e immancabilmente essi fornirono una loro versione che univa gli elementi militari, più propriamente di marcia, con il carattere dei “tamburi parlanti” d’origine africana, la poliritmia, e il call and response degli spiritual. Mentre le bande militari hanno via via raggiunto uno scopo e un aspetto formali, ingrandendosi ed esibendosi nelle occasioni ufficiali, in ambito civile la tradizione del flauto, costruito artigianalmente, con due-tre tamburi di diversa tonalità, nelle marce cittadine (originando le marching band di ottoni a New Orleans), nelle feste e nei picnic campagnoli, andò scemando nel Novecento, rimanendo però ancora radicata in parte della Georgia e nel Mississippi del nord (testimoniata negli anni 1940 da Alan Lomax).
Sharde affronta la modernità rimanendo quanto più possibile aderente al metodo tradizionale e mantenendo lo stesso genere di repertorio degli antenati (dai dischi di blues [anche urbano] di successo nei primi decenni del Novecento, alla musica religiosa e popolare – eseguendo brani come My Babe, Sittin’ on Top of the World, Since I Lay My Burden Down, You Can’t Do Nothing for Me, Fly With Me), dove il canto era una forma di accompagnamento o di “call”. L’atto trova la sua ideale rappresentazione in una marcia o in un picnic in cui i partecipanti sono attivi seguendo la coda con vociare e balli e accerchiando i musicisti, non in un’esibizione formale in cui la banda esegue e il pubblico ascolta seduto dal lato opposto, come avviene nel momento in cui una tradizione è sradicata dal suo ambito e portata al di fuori, non più solo dei locali o dello spettatore casuale.
In quest’occasione che non si può ritenere del tutto formale (però c’è un pubblico seduto), ma neanche quella tipica e omogenea di un picnic casalingo dove tutti si conoscono e i festeggiamenti vanno avanti per ore o giorni (quello tradizionale a casa di Otha in O.B. McClinton Road a Gravel Springs si svolge ancora, ma è diventato un festival ufficiale annuale), Sharde sul finale avvicina i due aspetti quando i musicisti continuando a suonare escono dal tendone dirigendosi sul palco per dare l’avvio ai concerti serali, formando così una second line, una coda di pubblico danzante. (1)
Ebbene sì, dietro c’è una scatola di vino Riunite! Non mi aspettavo di trovare in Mississippi proprio il lambrusco della mia città. Un paio di brevi video in tre momenti diversi (tenda, second line e palco).
Crossroads Cultural Arts Center, 332 Delta Ave, sede del 3º stage acustico; il secondo è al ristorante Levon’s.
Gente
Non ho nulla da dire su Bill ‘Howl-N-Madd’ Perry, accompagnato dalla spumeggiante figlia Shy alla keyboard bass, perché arriviamo che sta finendo.
Siamo su divani così comodi che rischiamo l’addormentamento, e i toni di Watermelon Slim, sia vocali che strumentali, conciliano.
Lo ritrovo molto invecchiato dopo averlo visto più energico circa dieci anni fa al Rootsway, e non molto in forma vocalmente (per la sua storia in breve, v. il link sopra).
Sulla sua National stile dobro ipnotizza via Smokestack Lightnin’, mentre all’armonica offre la sua Jimmy Bell (simil-Baby Please Don’t Go). Non ricordo altro a parte una certa pesantezza.
Discorre molto, con voce bassa e impastata, presentando il kalimba thumb piano africano, dandone poi dimostrazione girando tra il pubblico.
Tutto abbastanza noioso. Lui rimane un personaggio molto interessante, ma musicalmente non so cos’abbia ancora da dire.
Viceversa Bill Abel da Belzoni mi ha piacevolmente sorpreso. Abel, anche one man band, suona un ruvido e ficcante blues elettrico con sobrietà. L’avevo già visto a Parma nella stessa occasione di Watermelon Slim, ma mai come solista; là accompagnatore di Big George Brock, e nel film M for Mississippi soprattutto tecnico del suono. Il suo è stato il set che mi è piaciuto di più in assoluto e mi avrebbe convinta anche senza band, qui una con bel tiro e sulla stessa lunghezza d’onda, o con solo un batterista come faceva uno dei suoi mentori, T-Model Ford, dato che apprezzo comunque il suo modo di suonare e la fedeltà sonora che dedica al repertorio, associato all’Hill Country blues del North Mississippi e al Delta blues tradizionale.
Sfortuna però ha voluto che dopo ore alternanti tra pioggia-sole-afa-vento-freddo, l’inevitabile acquazzone sia arrivato proprio durante la sua ora (in realtà aveva solo tre quarti d’ora), così tutto si è sfaldato pur lui più o meno continuando a suonare. Il pubblico s’è dissipato, io con un gruppetto sotto il modesto (per dimensioni e tenuta) tendaggio del mixer, tra folate di vento freddo, acqua scrosciante dal tetto e chiacchiericcio. Date le condizioni ed essendo ormai passati tanti mesi e tanta musica non ricordo altro che Po’ Boy e No Special Rider, le uniche che mi sono goduta, ma è la memoria di tutto l’insieme che vale e perdura, sperando di rivederlo in una situazione decente.
Con lui sul palco Kenny Brown, nelle stesse corde, ha aggiunto valore alla performance più sfortunata e in definitiva musicalmente la migliore di tutto il festival. So che molti non l’hanno pensata così, forse nemmeno si sono accorti della differenza visto che poi, complice il ritorno del sole, il pubblico* ha improvvisamente affollato l’area sottostante il palco per idolatrare l’ennesimo guitar hero, Christone.
* (Tra cui un gruppo fotografico di Roma che mi ha caldamente consigliato Christone bollandolo come “fenomeno”, termine da loro usato in senso positivo.)
Sono d’accordo che sia un fenomeno, Christone ‘Kingfish’ Ingram, ma da circo – a meno che non misuriate il talento artistico/musicale dall’inutile impilaggio, stridore e velocità di note emesse in sincronico corredo di smorfie. Personalmente ho resistito cinque minuti là sotto, tanto basta per cogliere la sua arte quale che sia senza rimanere particolarmente offesi. La folgorazione della gente nei suoi confronti è sicuramente dovuta alle potenti scariche elettriche. Italianizziamolo pure con “Cristone” se vogliamo: non riesco a leggervi altro che un accrescitivo o un’imprecazione, perché quel certo tone non è di sua competenza.
A seguire Terry ‘Big T’ Williams, non del tutto soddisfacente. Vanta un passato con Big Jack Johnson e un baritono molto somigliante a quello di Muddy Waters, di cui ha proposto I Can’t Be Satisfied, Catfish Blues, Mannish Boy.
S’è destreggiato tra blues e soul (anche ballate) con moderato approccio kinghiano (soprattutto Albert) mediamente convincente, se non fosse anche lui funestato dalla tendenza a farsi dominare da eccessivo chitarrismo mediante improvvisi quanto inspiegabili parossismi sul manico dello strumento.
Sicuramente ciò non facilita neppure una certa originalità, evidenziando piuttosto una debolezza; non lo conosco abbastanza per dire se si tratta di natura o di compromesso o di entrambe le cose.
In ogni caso per me non c’è attrazione in quel modo di suonare, al 90% per le sonorità che ne derivano. Il restante 10% fa parte del dispiacere nell’assistere a un inutile dispendio di energie.
Dopo aver saltato gli Awards (tempo per un intruglio al Ground Zero) torno con pochissima aspettativa per Vasti Jackson, memore della sua recente e imbarazzante esibizione al Porretta 2016, dove quella tendenza (nei casi più lievi) o perversione (nei peggiori) di cui sopra (v. Cristone) ha raggiunto il massimo picco (Big T Williams al confronto è un maestro di stile).
Qui l’essere solo e alle prese con slide e dobro, pur elettrificato, l’ha forse riparato da eventuali eccessi. Non ho memoria dei dettagli ma ricordo di aver pensato “non male” – così mi appoggio solo su quella prima percezione – ma è un giudizio circoscritto perché paragonato al Porretta e qui significa solo che non me ne sono andata troppo delusa.
Non che mi abbia convinto, ma almeno l’ho visto in una forma meno massiva. OK, qualche mossa strategica l’ha fatta, mica si può diventar sobri tutto d’un colpo. Stanchi da una giornata anche meteorologicamente pesante, e del tutto dubbiosa su quali potrebbero essere gli esiti di Sweet Angel prima e Lonnie Shields poi, abbandoniamo il campo. Domani è un altro giorno e ci aspetta la chiesa.
Infatti al Civic Auditorium, 506 East Second Street, nell’ultimo giorno del festival è di scena il gospel. Un gran bel finale, divertente ed emozionante, anche più di quel che immaginavo trattandosi non di una chiesa ma del grande auditorium cittadino.
The Clarksdale Mass Choir apre le danze (ma dovrei dire preghiere) alle quattro del pomeriggio per un coinvolgente susseguirsi di set che si concluderà alle otto di sera.
Quelli che dovevano essere terzi salgono per secondi: Ned Johnson & The Jonestown Crusaders è un’ottima formazione locale tinta di blues.
Non conoscevo nessuna di queste formazioni; non seguo il gospel moderno e quindi neppure ne conosco il repertorio. A me son piaciuti comunque tutti allo stesso modo a partire da qua, dal vecchio Ned Johnson.
Ho evidentemente sbagliato qualcosa in queste foto; le pubblico lo stesso perché alla fine meglio foto sgranate ma con la luce dell’ambiente piuttosto che mosse o con gli effetti del flash.
La partecipazione del pubblico non è ancora all’apice, ma l’approvazione comincia a farsi sentire.
Supplisco alla scarsa descrizione con qualche breve video
Non ne beccherete nemmeno uno fuori tempo tra il pubblico
Gospel people
La gente è uno spettacolo nello spettacolo
Balli, battiti di mani e piedi, e le immancabili risposte al cantante o all’oratore.
Sembrano sbucate dai gloriosi anni Sessanta
Il più blues di tutti era proprio accanto a me. Reparto diavoli.
La scena scivola dal palco alla platea ed è bello starci in mezzo
Questa signora ha vinto un disco grazie all’età, 90 anni. Veramente ne ha 89 ma dato che non c’è nessun altro arrivato al venerando traguardo le spetta di diritto.
Ancora brancolo nel buio su cosa ci fosse sotto quel panno. Sembra un salame gigante.
The Singing Echoes
Voci meravigliose
I balli dei miei vicini:
Il pezzo forte sono i più famosi Lee Williams & The Spiritual QC’s, quartetto vocale di Tupelo accompagnato da band.
Lee Williams (omonimia con il batterista di Clarksdale) è il signore imbiancato, dietro.
Con loro l’intensità ha raggiunto il livello massimo; al picco l’auditorium sembrava venir giù.
Leonard Shumpert, seconda voce principale, durante il sermone.
Questa giornata da sola è valsa tutto il festival in quanto a emozioni, ma in generale anche musicalmente.
The Myles Family, a cappella, concludono, ristabilendo il rientro nei ranghi prima dei saluti finali. Per chiudere una serie di brevi video (ognuno dura poco più di un minuto) documentanti l’escalation nel set di Lee Williams & The Spiritual QC’s, anche se durante l’apice ho smesso di registrare. L’esperienza Clarksdale è finita, e il giorno dopo partiremo per nuova destinazione, sempre verso sud.
- Naturalmente con “avvicina i due aspetti” intendo da un punto di vista superficiale, dato che gli autentici picnic (festeggiamenti) campagnoli tradizionali diventavano con il passare delle ore, sul filo dell’ebbrezza e dei ritmi musicali sempre più intensi, dei tipici, anche simbolici, riti tribali a carattere orgiastico, all’interno della comunità afroamericana. Da Congo Square, passando per questi ritrovi campagnoli secolari o per le cerimonie religiose fino ai disadorni juke joint urbani del Southside chicagoano, si evince come si siano ciclicamente mantenuti ed evoluti l’aspetto rituale e l’atto liberatorio legati alla musica e alla danza. Ci sarebbe poi da dire sul carattere persistente della circolarità applicata ai rituali come alla tradizione musicale, ma è troppo per una nota a pié di pagina.[↩]
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