Articoli in riferimento a: Lee Jackson

Warren George Harding Lee (1921-1979), noto come Lee Jackson, chitarrista, bassista e cantante blues più registrato nella veste di sideman che in quella di solista, benché dotato di bel timbro vocale vibrante in linea, ad esempio, con quello di solisti chicagoani con cui ebbe a che fare, come Johnny Shines o il pianista Sunnyland Slim (con quest’ultimo lavorò spesso) e, in maturità, dall’emissione calda e scura. Anche come chitarrista era notevole, con attitudine swing dal suono corposo e brillante, tagliente.
Non un innovatore, ma un fine alfiere della chitarra blues elettrica urbana tradizionale (=immediato secondo dopoguerra), non tipicamente “chicagoana” (se con il termine s’intende il tipo pregno di vissuto downhome corroborato dall’uso dello slide, elettrificato nella Windy City) pur essendo quello l’ambito delle sue registrazioni.
Nato a Gill, Arkansas, fu influenzato dagli zii Cora e Alf Bonner, titolari della Bonner’s Jug Band, con la quale suonò per diversi anni. La coppia gestiva anche un locale tra Helena e Memphis regolarmente ospitante nomi di passaggio come la Memphis Jug Band e Charlie Patton. Lee continuò a suonare da solo come musicista itinerante fermandosi a Memphis, attraversando la Florida, toccando St Louis, Missouri, fino a virare intorno al 1950 verso Chicago, per rimanerci, dove forse entrò in contatto con il mondo di Maxwell Street. Al di là degli anni passati con la jug band, verosimilmente pieni di incontri musicali tra i più diversi, nulla so della sua formazione, né di altre accertate influenze.
Le sue prime registrazioni note come chitarrista solista sono del 1956 da una sessione per Cobra di Eli Toscano, emesse su un singolo con un brano umoristico di Willie Dixon, Fishin’ in My Pond, e l’autografo I’ll Just Keep Walkin’; i due sembrano appartenere a sessioni diverse, anche se limitrofe, perché gli accompagnatori cambiano. Entrambi hanno il padrino Dixon al contrabbasso; nel primo tra i colleghi ci sono Walter Horton, Sunnyland Slim e Jimmy Rogers, nel secondo Lafayette Leake, Otis Rush e forse Odie Payne: come i due tenor-sassofonisti Harold Ashby e Lucius Washington, presenti in almeno una delle sessioni, sono alcuni di quei musicisti che Dixon portò in Cobra per rimediare alle maglie troppo strette di Chess. Il primo titolo, pur con la struttura compositiva e ritmica tipica di Dixon, compreso lo stop-time, si distingue per gli echi di R&B urbano di Jackson che richiamano un periodo antecedente, ma anche per lo scontro tra gli strumenti a fiato e la chitarra durante il solo, creanti una piccola cacofonia. Il secondo sostiene l’impressione di quanto i suoi modelli canori sembrino essere i grandi shouter come Wynonie Harris e Roy Brown, gli stessi di B.B. King, e quella vena gospel (o “piangente”) riscontrabile in Guitar Slim, che proprio in quel periodo (come King) stava avendo successo; la chitarra è gelida e sferzante, e suona melodie single-note comparabili a quelle di chitarristi luisiani/texani come Clarence ‘Gatemouth’ Brown, Freddie King, Lafayette Thomas, Guitar Slim (mississippiano atipico).
Che io sappia, la prima successiva apparizione di Lee Jackson tra i solchi incisi è nella sua partecipazione al “Jump Jackson’s Blues Party” (o “…Blues Session”), organizzato dal batterista Armand ‘Jump’ Jackson nel suo “garage-studio” al 5727 South La Salle Street a Chicago, nel luglio 1960, per il critico e autore tedesco Joachim Berendt (per più dettagli sull’evento, v. Joachim E. Berendt). Lee registra solo una traccia a suo nome (Change of Love), ma supporta gli altri solisti: i pianisti Sunnyland Slim, Roosevelt Sykes e Willie Mabon, l’armonicista Shakey Jake, i cantanti Johnny Thompson e St Louis Jimmy Oden, i chitarristi Eddie Clearwater e Jimmy Johnson. Peccato per il vuoto di quattro anni, e per la registrazione sporca, ma anche qui mostra un bel connubio stilistico tra il diffuso tappeto pianistico di Sunnyland Slim, il backbeat di ‘Jump’ Jackson e i contorni fumosi e addensanti del sax di Tom Archia (per il texano queste furono le sue ultime registrazioni) con il canto invocante e la chitarra parlante leggermente distorta di Lee Jackson; i riff jazzati degli ultimi due s’avvinghiano in un mare d’eco.
Nel 1961 uscì il secondo singolo a suo nome, e vide Please Baby (aka Pleading for Love) / Juanita su etichetta Key Hole, sussidiaria di Bea & Baby, il cui titolare, Narvel Eatmon (aka Cadillac Baby) è accreditato come co-autore del primo brano, altro mid-tempo R&B con eco e atmosfera quasi orchestrale che per melodia e stile di canto aperto rimanda a B.B. King, mentre la “stinging guitar” si conferma più vicina allo stile meno lirico e più asciutto dei sopra detti.
L’autografo Juanita è un’altra meraviglia; l’incipit è un classico, di quel tipo che suona familiare (ricorda, ad es., quello di You Can’t Lose What You Ain’t Never Had di Muddy Waters, che però arrivò dopo), e il dubbio è se è proprio qui che è nato. La voce è screziata, calda e avvolgente, e ci sono un paio di brevi cambi di ritmo alla Junior Wells; è il brano fin qui più chicagoano, con due sax tenori (J.T. Brown e Boyd Atkins), il pianista Little Johnny Jones, il chitarrista Eugene Pearson, il bassista Bob Anderson, e Jump Jackson. L’invocazione mi ricorda il Robert Nighthawk di Annie Lee, e forse influenzò il giovane Otis Rush (che Dixon introdusse in Cobra con più fortuna di Jackson, il quale dopo quella prima sessione del ’56 non vi tornò); Lee Jackson potrebbe aver suggestionato alcuni giovani chitarristi del Chicago blues più di quanto si sappia, e in qualche caso aver insegnato direttamente, come è successo a Luther Tucker. Quando Lee era nella band di Little Walter (insieme al bassista Jerome Arnold e al batterista Willie Williams), questi si lamentò con lui per la sua disponibilità a far suonare chitarristi in erba (come noto, Walter voleva solo chitarristi all’altezza al suo fianco).
Juanita appare qui per la prima volta e lo si può considerare il suo signature tune dato che nella sua magra discografia solista lo si trova in almeno altre tre versioni, tutte belle (senza più i cambi di tempo): dal vivo nelle registrazioni dell’American Folk Blues Festival 1970 (gli spazi solisti sono lasciati all’incredibile armonica di Horton), nel suo primo album solista (Lonely Girl) del 1973, e la definitiva nelle sessioni di Ralph Bass (1977) ai PS Studios di Chicago, inedite ai tempi, apparse solo nel 1985 nei voll. 4 e 5 di una serie antologica (v. più sotto).
È evidente che, nonostante la bellezza dei brani, anche nel ’61 non ottenne particolari riscontri se poi fino al 1967 non si trova nient’altro a suo nome (Christmas Song per Bea & Baby, audio pessimo; dall’altro lato del disco [#121] c’era un brano di Clyde Lasley sempre ispirato al Natale, ma certo non del tipo convenzionale: Santa Came Home Drunk).
Si registra invece una buona attività come sideman, e la prima importante è nell’album Roosevelt Sykes Sings the Blues (Crown) del 1962, dov’è l’unico chitarrista ad accompagnare, in stile jazzy, il pianista dell’Arkansas insieme a Dixon, ‘Jump’ Jackson e il tenorsassofonista Sax Mallard.
Prestò supporto anche come bassista elettrico, ad esempio per Homesick James (Blues on the South Side, 1964) e per Billy Boy Arnold (More Blues on the South Side), entrambi prodotti da Sam Charters per Prestige; per James ancora nel 1970, due tracce non pubblicate. È al basso anche nello strumentale di Otis Spann G.B. Blues (1966), uscito solo in CD (Otis Spann’s Chicago Blues, Testament), e ancora su Testament per Johnny Shines (in The Johnny Shines Band, Masters of Modern Blues e in Johnny Shines with Big Walter Horton) e per J.B. Hutto (J.B. Hutto & The Hawks, Masters of Modern Blues). Fu bassista anche in una sessione di almeno cinque brani di Hound Dog Taylor (1967) per Chess da cui uscirà solo un singolo (Watch Out / Down Home).
Ancora come chitarrista registrò tre brani in supporto a Little Johnny Jones, ai tempi (1964) rimasti inediti (Rooster Records li ha pubblicati nel 1980), e nel 1966 per un Little Walter in fase discendente in Back in the Alley (poco convincente strum. sulla versione di Chitlins con Carne di Junior Wells, a sua volta ispirato dall’originale di Kenny Burrell), I Feel So Bad, e Chicken Shack, al tempo non pubblicati da Chess.
Nel 1970 venne in Europa con l’AFBF e oltre a quelle in accompagnamento anche due tracce a suo nome furono pubblicate sull’album American Folk Blues Festival 1970, la già menzionata Juanita, e la più canonica (nello stile di Dixon) Came Home This Morning, registrate con il gruppo Chicago Blues All Stars di Dixon, nel quale era entrato al posto di Johnny Shines (gli altri sono Walter Horton, Lafayette Leake al posto di Sunnyland Slim, e Clifton James). Il C.B.A.S. è udibile anche in altre registrazioni dal vivo in una serata, l’8 novembre 1970 a Chicago, intitolata Blues & Gospel Night, che li vide presenti sia come gruppo a sé che in supporto a vari cantanti gospel (The Patterson Singers, Sister Rosetta Tharpe, Stars of Faith); il concerto fu diffuso via FM in diretta (per anni rintracciabile in rete come bootleg, alla fine del 2017 è stato pubblicato ufficialmente come Chicago Blues All Stars 1970 su etichetta Klondike). Ancora con gli All Stars, partecipò alle registrazioni del maggio 1971 alla Liberty Hall di Houston con Johnny Winter (Willie Dixon & Johnny Winter with The Chicago All Stars, Crying the Blues) uscito nel 1996 per Thunderbolt (UK).
Ulteriori prove come sideman furono lasciate presso Delmark per J.B. Hutto, in Hawk Squat (1969) e in Slidewinder (1973); nel 1971 un’altra sessione come solista (con Johnny Young, Bombay Carter, Ted Harvey) rimase inedita, ancora per Bea & Baby, producente un brano in due parti intitolato Apollo 15.
Lee Jackson pubblicò il suo primo album solista, Lonely Girl, nel 1973 su Bluesway, accompagnato da Carey Bell, Sunnyland Slim, Bombay Carter al basso e il poliedrico Willie Williams alla batteria. Niente di sorprendente, ma è un buon disco di consolidato e maturo Chicago blues. Nel 1974 riprovò con una missione Apollo, l’ultima, pubblicando uno strumentale, Apollo 17, su C.J. Records; il retro un altro strumentale, Chop-Suey.
Nel 1977 registrò diverse tracce autografe come solista e accompagnatore in due sessioni prodotte da Ralph Bass (sopra accennate), al tempo rimaste inedite, accompagnato da Sunnyland Slim, Lacy Gibson, Willie Black e il fantastico Fred Below; tre (una nuova versione di Pleading for Love, Chicago Women [rifacimento del St Louis Blues], Rocks Is My Pillow) usciranno su un’antologia Red Lightnin’ (UK) nel 1985, intitolata I Didn’t Give a Damn If Whites Bought It, Vol. 4, altre tre (Dirty Old Man, il “lockwoodiano” Lee’s Boogie, Juanita) nel vol. 5 della stessa serie. Peccato perché sono tutte ben riuscite, non importa che ci sia poco di nuovo visto che non c’è niente di banale o scontato, e con un altro piccolo sforzo si sarebbe potuto compilare un intero album a suo nome facendolo uscire finché era ancora, per poco, in vita. L’accompagnamento è di alta classe, il suono è brillante, equilibrato e con il giusto eco, il suo canto e il suo chitarrismo maturi hanno raggiunto lo status di classico e, come dicevo sopra, Juanita è nella sua forma definitiva. In una di quelle stesse occasioni (8 e 16 marzo), anche Lacy Gibson registrò delle tracce a suo nome, altrettanto riuscite; le sue usciranno su Delmark nel 1996 (Crying for my Baby), e tre fra i brani di (e cantati da) Lee Jackson (Chicago Women, Pleading for Love, Dirty Old Man), dove gli si attribuisce la chitarra ritmica, saranno inclusi.