The American Folk Blues Festival – The British Tours 1963-1966

The American Folk Blues Festival, The British Tours 1963-1966 (DVD cover)

Anno 1963. In uno studio televisivo particolarmente suggestivo grazie a un bianco e nero da film espressionistico tedesco, Memphis Slim introduce al pubblico The King of the Harmonica, Sir Sonny Boy Williamson II.
E lui appare, in completo scuro e accessoriato con cartella da ufficio, bombetta e ombrello stile impiegato della City, come a ironizzare su un’improbabile integrazione londinese.
Dopo l’applauso di benvenuto, in un silenzio beffardo mosso appena da una sommessa ilarità generale e da un paio di pizzicate sul contrabbasso delineanti i movimenti di Williamson, Sir, tra serio e sardonico, posa a terra la borsa e il cappello ma non l’ombrello, che con un piccolo coup de théatre mette all’avambraccio. Sfila l’armonica dallo stesso taschino nel quale si trovano anche un taccuino e una penna, e presenta in modo elegante, pensoso, dietro uno sguardo acquoso e malinconico, la sua intrigante Keep It to Yourself, morbidamente eseguita ed emotivamente coinvolgente tramite i lunghi primi piani della regia.
Comincia così, in un clima leggermente stravagante e irreale, un altro capitolo della saga filmata The American Folk-Blues Festival, vale a dire The British Tours 1963-1966, rilasciato nella primavera del 2007, distanziato dagli altri tre volumi della serie tedesca che vide la luce dopo 40 anni d’oblio in occasione della ricorrenza centenaria del Year of the Blues, fissata per convenzione al 2003. Sono diciotto registrazioni live inedite, fatte durante tre anni topici per il blues americano in terra inglese, in cui le scenografie s’affidano solo al fascino chiaroscurale sulla scala dei grigi e alla presenza di un composto ma coinvolto pubblico giovanile.

Nella miglior tradizione dei festival europei ad accompagnare i dieci artisti da primo piano altrettante stelle sono chiamate all’appello, dai chitarristi Otis Rush, Matt ‘Guitar’ Murphy, Hubert Sumlin, ai pianisti Otis Spann e Sunnyland Slim e due rarità come Cousin Joe Pleasant e Little Brother Montgomery, dai batteristi Fred Below, Clifton James, Willie ‘Big Eyes’ Smith, ai bassisti Willie Dixon, (1) Jack Myers e Ransom Knowling, anche questi ultimi due non frequenti in video; qualcuno non chiaramente inquadrato, alcuni tenuti nell’oscurità, ma tutti distintamente presenti e stilisticamente importanti.
Dopo Williamson è il turno di Muddy Waters in veste di cantante, elegante, rilassato e gaudente. Rimangono al loro posto Matt Murphy, Dixon, Clifton James e Spann, per una Got My Mojo Working serrata e piena d’accenti, prima di lasciare la scena ad un melodioso, raffinato e solitario Lonnie Johnson, incantatore con una Too Late to Cry che sembra lasciare senza parole un pubblico attento a non perdersi ogni particolare.
È solo anche il sanguigno Big Joe Williams (presentato in modo altisonante da Memphis Slim come l’unico uomo al mondo che ha […] e suona una chitarra a nove corde) ad accompagnarsi con il battito del piede per un’arcaica Baby Please Don’t Go alla fine della quale afferma, a metà tra Forrest Gump e una confessione in tribunale, di non aver nient’altro da dire.

Si passa al 1964, dove un altro fortunato pubblico di signorini e signorine inglesi assistono a un’ulteriore temperata performance di Sonny Boy Williamson con una Bye Bye Bird di velluto, schioccata con la lingua e suonata anche con il naso (sic), e a seguire lo shuffle felpato di Getting out of Town dove invece sibila, come scottato dal fuoco.
Non chiamare la polizia, baby / Sto andando fuori città / Ora so che non mi vuoi intorno è il leit motiv della canzone, incorniciata ad arte da un’altra ben combinata banda: Sunnyland Slim, Dixon, Clifton James e Hubert Sumlin in salsa swing. Alla fine scroscio di applausi più che meritati, mischiati con quelli per l’arrivo di Lightnin’ Hopkins, rude country boy della provincia texana che dovette affrontare la sua paura di volare. Dall’acustica amplificata e dal terroso baritono escono la ritmica, rockeggiante Come Go with Me e la drammatica Lightnin’s Blues, diverse ma entrambe caratteristiche del suo stile: il boogie e l’invito al ballo, la prima, la preghiera e la riflessione, la seconda.

L’energica ed espressiva Sugar Pie Desanto, in guanti lunghi e abito da ballo college, impepa l’errebì di Baby What You Want Me to Do accompagnandosi con la mimica. Voce graffiante, occhi a mandorla, pare una bimbetta a fianco di Dixon. Peccato solo per la mancata inquadratura di Sumlin durante il suo assolo, mancanza però recuperata nella scena seguente, dove Sugarpie rende maliziosamente chiara Rock Me Baby. Da notare la chitarra “spaziale” di Sumlin (e qui peccato per il bianco e nero), una rarità per un americano: una cheap guitar italiana di Alvaro Bartolini, che però in mano sua suona benissimo.
La sola entrata di Howlin’ Wolf (anche lui con chitarra economica), già conosciuto dal pubblico inglese, scatena entusiasmo. L’entusiasmo si rivela giustificato da un’esibizione che meriterebbe l’esposizione permanente al Louvre. All’armonica e al canto (e che canto), grondante sudore e passione, invade con una Smokestack Lightning ferina che lascia con il fiato sospeso, convogliando con forza chiunque abbia in sintonia e all’erta i propri sensi; persino Dixon, che di certo v’è abituato, sembra estasiato. Ognuno qui è un pezzo unico e irripetibile, sono tutti stilisti originali. Che dire poi di Don’t Laugh at Me (è pressoché impossibile immaginare qualcuno ridere di Wolf) dove fa la ritmica al suo alter ego chitarristico, l’inossidabile Hubert Sumlin, colui che ha contribuito a rendere memorabili i suoi dischi degli anni 1960, e qui viaggiante nel solco di Killin’ Floor.

Si salta al 1966 e si cade ancora assai bene. È jump blues “estremo” e occorre allacciare la cintura di sicurezza a causa del moto impetuoso, all meat shakin’ on the bones, innescato dal roboante, maturo shouting tenorile di Big Joe Turner, dall’incandescenza di un Otis Rush ciuffettone, dal fluido martellare sugli 88 di Little Brother Montgomery e dall’inafferrabile macchina da pista guidata da Fred Below, insieme all’immobile Jack Myers nascosto dietro occhiali scuri, impassibile palo della banda: Oh Well, Oh Well!
Chiude il filmato principale un impomatato Junior Wells, presentato in lontananza da Roosevelt Sykes (Little Junior Wells, where are you? Little Junior Wells where whé whé wheee… Oh yeah!). Al canto ma senza armonica, l’agile piccolo Wells compensa con sorrisi a trentadue denti e una danza alla James Brown sul ritmo liberatorio di What’d I Say.

Howlin' Wolf, Willie Dixon, Sleepy John Estes, Sonny Boy Williamson II, Sunnyland Slim, Sugar Pie DeSanto, Lightnin' Hopkins, Hubert Sumlin
Howlin’ Wolf, Willie Dixon, Sleepy John Estes, Sonny Boy Williamson II, Sunnyland Slim, Sugar Pie DeSanto, Lightnin’ Hopkins, Hubert Sumlin

I bonus track, non di produzione AFBF ma di un programma inglese di Granada TV denominato The Blues and Gospel Train, sono quattro chicche dal vivo all’aperto in una vera stazione di treni in disuso (Wilbraham Rd. Railway Station a Chorlton, nella finzione rinominata Chorltonville) a sud di una piovosa e grigia Manchester nel maggio 1964, davanti a un giovane pubblico arrivato in treno. I quattro bonus sono un estratto perché all’evento parteciparono, oltre a Muddy Waters e Sister Rosetta Tharpe che si vedono qui, anche Cousin Joe Pleasant (che si vede, ma non come solista), Sonny Terry & Brownie McGhee, e Rev. Gary Davis, accompagnati (a parte Gary Davis e Terry-McGhee) da Otis Spann (che si sente poco e si vede ancora meno, essendo sempre fuori inquadratura), Willie Smith e Ransom Knowling.
Non si può dire non sia azzeccata, rappresentativa della wanderlust afroamericana, l’immagine di Muddy Waters che, camminando al buio sulla strada ferrata, bavero rialzato, cappello e valigia, avanza intonando You Can’t Lose What You Ain’t Never Had, con la band già al suo posto. Ancor meglio quando arriva sul marciapiede della stazione e nell’aria umida comincia a suonare slide con sapiente parsimonia; il pubblico, infreddolito ma eccitato, è al lato opposto, oltre le rotaie.

Per Blow Wind Blow invece suona ai piedi della gradinata del pubblico. Un treno è fermo sui binari, la ragione per cui Muddy è passato dall’altra parte: pare un musicista di strada circondato dalla gente. Questa scena realista con i ragazzi che s’accalcano, il treno in sosta e qualche passante fanno sembrare la piccola stazione viva, salvo accorgersi della messa in scena, anche puerile, per gli oggetti da scenografia sudista americana con manifesti al muro, cestini di vimini, barili, carretti, sedie a dondolo, polli e addirittura una capra, e un pizzico di selvaggio West con un avviso di Reward.
Forse Muddy sceglie di suonare soffia vento soffia per via della brezza che effettivamente tira, ora insieme alla canonica pioggia inglese, e così è anche durante l’esibizione diurna di Sister Rosetta Tharpe: emblematica è la visuale della cascatella d’acqua giù dal tetto, a poca distanza dal pianoforte. Non rimane che suonare Didn’t It Rain, classico del repertorio sacro da lei tanto amato e opportunamente reso mondano. Prima però arriva su una carrozza trainata da un cavallo, scende e cammina accompagnata da Cousin Joe a tempo di musica in stile cakewalk verso la postazione: ha un cappotto bianco con collo tempestato di strass, calze velate e scarpe chiare con tacco da sera pestanti sul bagnato, nonostante ciò indossa e suona disinvolta e con l’usuale piglio la Gibson bianca, mentre il pubblico batte le mani tutto il tempo. Pretty good for a woman, ain’t it?, dice durante Trouble in Mind, il noto blues standard di Richard M. Jones, che con fatalismo va a chiudere il dvd.

Reelin’ in the Years Productions ed Experience Hendrix si sono occupati di levigare le immagini e il sonoro (in mono), per un risultato di buonissima qualità; peccato solo per le originarie sviste sui vari solisti dediti all’accompagnamento, in compenso le riprese sui protagonisti sono efficaci. È anche uno scorcio su un mondo ormai lontano, sugli usi e costumi del tempo (è strano veder fumare qualche spettatore in studio, e lo stile dei giovani inglesi è beat, elegante e intellettuale, anche se dell’effetto esistenzialista bisogna ringraziare il bianco e nero), e per l’attenzione e l’accoglienza riservata agli artisti americani, fatto che traspare in modo evidente in tutta la faccenda AFBF. Ai benemeriti in trasferta dovettero sembrare una cosa anomala le esibizioni europee: erano le prime volte che ricevevano buoni compensi (in confronto allo standard americano), e che suonavano in un silenzio assoluto, davanti a facce bianche e straniere in religiosa attenzione pronte ad aprirsi in sorrisi riconoscenti e applausi scroscianti a fine esibizione.
Dobbiamo poi ringraziare la necessità di monetizzare, non solo la lungimiranza dei produttori e degli organizzatori, se oggi possiamo vedere questi bluesman in azione (Sonny Boy Williamson scomparve dopo poco), infatti la decisione di effettuare riprese professionali, da vendere poi alle televisioni, scaturì dal bisogno di rientrare dalle spese sostenute.

Qui saranno anche mancati la genuinità dello scambio e della familiarità con il pubblico, l’ambiente abituale, il climax complice, ma questi uomini e donne di blues lontani da casa dimostrarono un forte spirito di adattamento senza perdere nulla della loro classe, dimostrando assoluta integrità artistica nel momento in cui la loro musica fu disgiunta dal fatto “folclorico” per diventare nuda rappresentazione, fornendo prova che il blues è arte musicale universalmente fruibile, non qualcosa culturalmente relegato in ambito locale, mentre rimane chiaro che non poteva nascere ed evolvere con le sue tipiche caratteristiche in altri luoghi se non quelli d’appartenenza.
Il blues, con la sua impareggiabile varietà di personaggi e la sua vasta gamma musicale, la sua natura obliqua, il carattere molteplice, trasversale, la pura e sfaccettata genialità diamantina espressa a più voci, riunita sotto un univoco, caratteristico linguaggio poetico offerto nel corso di un secolo, dai primi esponenti rurali analfabeti fino a Duke Ellington, non sarebbe mai potuto rimanere questione per pochi, o esclusiva del pubblico afroamericano.
Del resto, anche il carattere spagnolo della poesia di Garcia Lorca non pregiudica la comprensione universale, la stesura in volgare della Divina Commedia non compromise l’opera, né la dottrina di Gandhi rimase confinata in India, o Socrate unicamente per i greci, nonostante per tutti questi e altri casi l’epoca della globalizzazione, di internet e della diffusione veloce fosse ancora ben lontana.


  1. Dixon fin dagli inizi e per qualche anno sarà il riferimento americano degli organizzatori tedeschi. Era lui a reclutare gli artisti e a predisporre le esibizioni.[]
Scritto da Sugarbluz // 22 Marzo 2010
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